venerdì 26 novembre 2010

Alberto Moravia - Non sanno parlare

Nella vita tutto sta a mettere il piede sul primo gradino. Per me, il primo gradino fu la baracca che costruii accosto alla mia casetta, su un rialzo del terreno, tra i sambuchi, lungo la Via Portuense. Stracciarolo e bottigliaro, non avevo capitali; per questo costruii la baracca in economia, spendendo circa venticinquemila lire, mano d'opera non compresa, perché la feci con le mie mani: niente piano rialzato, niente pavimento, niente cucina, niente gabinetto, niente finestre, mura di un solo strato di foratini, tetto di lamiera ondulata. La mia casetta è bianca; la baracca, per distinguerla, la dipinsi di rosa. Subito l'affittai per ottomila lire mensili ad un manovale che si chiamava Michele, soprannominato da tutti Surunto, ossia più che unto, cioè più che sporco. Questo Michele non era di Roma, Dio solo sa di dov'era, forse di qualche paese di montagna, e sembrava proprio un selvaggio: scuro di pelle, la fronte bassa, gli occhi sgranati, infelici, stupefatti, una selva di capelli a spazzolone e la barba sempre lunga, anche la domenica. La moglie era un'altra selvaggia, piccola e olivastra anche lei coi capelli ritti sulla testa. Le tre bambine erano tre selvagge anche loro, brune, gli occhi enormi, i capelli ammatassati e polverosi. Una famiglia di selvaggi.

Noialtri, benché io sia, come ho detto, bottigliaro e stracciarolo, siamo invece una famiglia civile: mia moglie è una brunetta pulita e in ordine, la mia bambina si lava e si pettina, ci ha i fiocchetti alle treccine e i vestitini di bucato, e la nostra casetta, per quanto abusiva, è uno specchio. E poi noi parliamo, vi sembrerà strano che lo dica con orgoglio, ma tra il Surunto, la sua famiglia e noialtri c'era soprattutto questa differenza: noi parlavamo e loro no. Noi dicevamo: - Ho fame, ho sonno, dammi la padella, sta' zitta, buongiorno e buonasera -; loro invece non parlavano veramente ma si esprimevano con certi versi e certi borbottii che sembravano proprio quelli degli animali. Sarà stato dialetto, non discuto, ma era un dialetto strano che rassomigliava tale e quale ai versi delle bestie che, loro, poverette, si fanno capire appunto con i versi e non con le parole. Tanto che glielo dissi al Surunto, il giorno che facemmo il patto: - Intendiamoci: niente uso di gabinetto e di cucina, perché voi siete bestie, e vi conosco e fate presto a ridurre il gabinetto una fogna e la cucina una pattumiera. Ottomila lire per la sola abitazione, siamo intesi? - Lui mi ascoltava con tutta la fronte aggrottata dal grande sforzo che faceva per capirmi e poi disse: - Non siamo bestie, siamo cristiani -; ma lo disse, appunto, con un borbottio cupo e incomprensibile per cui io esclamai, trionfante: - Ecco la prova. Che ti credi di aver detto? Non hai detto proprio niente, hai fatto un verso, come un animale e bravo chi ti capisce. Perciò tu prima impara a parlare e poi torna qui e dimmelo con parole chiare e io ti do il gabinetto e la cucina. Se no, no. -

Subito mi accorsi dell'errore che avevo commesso prendendo questo Surunto; ma ormai era troppo tardi. Le ottomila lire, è vero, lui le pagava perché era onesto; ma tanti erano gli inconvenienti della vicinanza che, secondo me, anche a ottantamila lire ci avrei rimesso. Intanto il sudiciume delle bambine che, stando così appiccicate le due baracche, non si potevano evitare. Le tre bambine che avevano le teste come tre nibbi, giocavano, si capisce, con la mia. Risultato: una mattina, tornando a casa, udii un pianto disperato. Era la mia Rosetta a cui mia moglie, seduta sulla soglia, teneva la testa piegata su un catino per liberarla dai tanti e tanti insetti che le sue tre amiche le avevano regalato. Il Surunto non c'era e io me la presi con la moglie e lei mi venne sotto, con le mani al viso, gridando, al solito, con quel loro borbottio inarticolato per cui alla fine io le dissi: - Ma sta' zitta, tanto non ti capisco. Pensa piuttosto a pettinare le tue bambine. La sai la canzone: ci hai il riccioletto fatto a molla; dentro il pidocchietto ti ci balla; e la cimice ci fa la tarantella. - Ma sì, altro che canzone. Quando non erano le bambine, era la madre, proprio lei, che veniva in casa e dove metteva le mani o i piedi, sporcava; e sempre chiedeva qualche cosa in prestito, ora la padella, ora una forchetta, ora un bicchiere; e quando restituiva l'oggetto, non c'era poi sapone o cenere o acido che bastasse a ripulirlo. Insomma era un pianto continuo; tanto che lo dissi a mia moglie: - Abbiamo fatto un cattivo affare. Adesso tutto sta a resistere alla compassione. Se ci lasciamo andare, siamo perduti. -

Resistere alla compassione: sono cose che si dicono. Venne l'inverno e le disgrazie cominciarono a fioccare fitte fitte sulla testa di Michele. Per prima cosa, per il gran freddo e per la pioggia, sospesero i lavori nel cantiere in cui lui faticava da manovale, così che rimase disoccupato; qualche giorno dopo gli si ammalò la bambina più grande, Leonilde. Mia moglie che è buona buona buona, e tre volte buono vuole dire minchione, andò a visitarli e dopo un poco tornò indietro dicendo che lei non ci resisteva e se non ci credevo, ci andassi anch'io e vedessi tutto quanto con i miei occhi. Vincendo la ripugnanza, entrai, dunque, nella baracca del Surunto, la prima volta da quando gliel'avevo affittata. Dico la verità, ne ho viste di baracche e casette abusive, ma zozza come quella, mai. Siccome cucinavano con una latta di benzina per fornello e facevano il fuoco in terra, le pareti che gli avevo date imbiancate, ormai erano annerite come la bocca di un forno. Tra queste quattro pareti affumicate, in penombra, vidi di tutto un po': fango e acqua in terra; cocci, scarpacce rotte, stracci, scatole vecchie di conserva; due seggiole di paglia sfondate; parecchie cassette da imballaggio; e nel mezzo, un tavolo scuro sul quale stava posata una scodella piena di pasta asciutta fredda del giorno prima. Mi fece impressione questa scodella: sembrava quella in cui mangiano i cani.

Nell'angolo più buio ci stava il letto matrimoniale, di ferro nero, e io aguzzando gli occhi ci intravvidi un involto di stracci e due occhi che brillavano: la bambina malata. Snervato da tanto sudiciume e dal cattivo odore che c'era nella stanza, mi accostai e le misi una mano sulla fronte: scottava. Dissi allora alla madre e al Surunto che mi stavano dietro: - Ma questa bambina che mangia? Che ha mangiato? - La moglie, al solito, con quella sua parlantina cupa e incomprensibile, mi disse qualche cosa che non capii e io gridai esasperato: - Ma possibile che in tanto tempo che siete a Roma, non abbiate ancora imparato a parlare da cristiani? Beh, adesso io ci ho da fare. Mia moglie vi darà qualche cosa da mangiare per la bambina. Ma intanto perché non fate un po' di pulizia?- Altre frasi incomprensibili. Alzai le spalle e uscii dalla baracca.

Quel giorno mia moglie cucinò in casa non soltanto per la bambina malata ma anche per tutta la famiglia e tanto fece che ottenne da quella donna selvaggia che almeno ripulisse un poco la baracca dalle tante porcherie che ci stavano ammucchiate. La sera la bambina stava un po' meglio; e dopo cena ci ritirammo, ciascuno in casa propria. Ma poco prima di mezzanotte incominciò a piovere o meglio cominciò a cascare giù l'acqua come da una botte sfondata; e noi due, a letto, al buio, ascoltavamo quest'acqua che veniva giù a torrenti, spietata, e tutti e due pensavamo la stessa cosa e alla fine mia moglie disse: - Certo quei poveretti qua accanto mi fanno pietà. Non ci hanno niente, non ci hanno lenzuola, coperte, cuscini, non ci hanno piatti, pentole, bicchieri, non ci hanno scarpe, vestiti, sono nudi e crudi, zingarelli. E tu non gli vuoi dare l'uso di cucina e di gabinetto. E per giunta gli fai pagare ottomila lire, che di questi tempi è una bella somma. - Io le risposi: - Lo so che sono nudi e crudi, zingarelli. Ma questa baracca per me è il primo gradino. Se ci metto sopra ben bene il piede, poi posso salire più su. Queste ottomila lire sono la leva con cui posso scalzare la miseria. Non lo capisci questo? Loro stanno sotto di noi e noi gli mettiamo un piede sulla schiena per salire un po' più su. E quanto al gabinetto e alla cucina, a loro che gli serve? Sono bestie e se gli dessi l'uso di cucina e di gabinetto, loro ridurrebbero tutti e due come la casa loro che l'hai vista e lo sai che roba è.

Ma lei insistette: - Così, però, mi tocca cucinare per loro perché non ci ho core di vederli mangiar freddo o cuocere sulla latta di benzina. E quanto al gabinetto, lo sai perché la bambina si è beccato quel febbrone? Perché ha dovuto uscire di notte sotto la pioggia e andare per la campagna a fare i suoi bisogni -. Allora ta-gliai corto: - Che ti credi che abbiano fatto quelli che hanno i quattrini e girano con l'automobile? Hanno messo anche loro il piede su un primo gradino. Lo so che sono uno sfruttatore, ma lo sono per amore della famiglia e a questo mondo chi non sfrutta finisce per essere sfruttato. - Insomma, discutevamo al buio, men-tre continuava quel diluvio, quando, ecco, picchiano alla porta. Mi alzo, vado ad aprire e vedo Michele. Sembrava un'apparizione, tutto gocciolante, col cappelletto nero aggrondato sugli occhi, fradicio da far pensare che avesse fatto allora allora un tuffo nel Tevere. Gli domando quel che volesse e lui risponde con il solito borbottio cupo qualche cosa che non capisco. Allora io, spazientito, l'acchiappo per il bavero e lo scuoto come un pupazzo gridando: - Ma parla da cristiano, parla, che io non ti capisco un accidenti. - Lui non si muove, ripete il borbottio. Finalmente, un grido di mia moglie che era rimasta a letto: -Giovacchino, dice che gli piove dentro la baracca.

Breve, mi rivestii e uscii con Michele. Pioveva a torrenti nella notte nera e c'era anche il vento, di tramontana, che ora spingeva l'ondata della pioggia per un verso e ora per un altro. Entrammo nella baracca, al buio, e tosto sentii l'acqua scivolarmi tra il collo e il bavero, gelata, giù per la schiena. Pioveva tra due foglie di bandone che non si sa come, forse per via del vento, si erano spostate; e non pioveva a gocce, pioveva proprio forte come se fossimo stati all'aperto. Dissi imbestialito: - Ma accendi un lume. - Il Surunto mi rispose dal buio una frase smozzicata che non capii, forse voleva dire che non ce l'aveva il lume, e io allora fregai un fiammifero e alla luce della fiammella vidi l'acqua in terra e il fango e i bacherozzi e vidi che pioveva anche sul fondo del letto, per cui la madre e le tre bambine si erano ritirate tutte insieme in su, verso il capezzale, formando un grande mucchio come di biancheria sporca. Insomma non si potevano fare che due cose: o prendere il Surunto e la famiglia in casa nostra per quella notte; oppure riparare il tetto. Preferii fare la seconda; e così passai un'ora a camminare in su e in giù dalla baracca mia alla sua e poi, sempre sotto la pioggia che veniva giù a secchiate, salii sul tetto e aggiunsi due foglie di bandone e ci misi sopra tre o quattro pietre per farle star ferme.

Ci credereste? Dopo, ci misi quasi due ore a riprender sonno, un po' per il gran freddo, che non facevo che tremare, un po' per il nervoso, perché pensavo che Surunto, la moglie e le bambine mi facevano compassione e al tempo stesso non volevo che mi facessero compassione e poi mi arrabbiavo di non volere e alla fine non capivo più se mi facessero compassione o non me la facessero. Mia moglie, che mi sentiva inquieto, disse alla fine: - Ma perché non dormi? Loro, qua accanto, con tutti i guai che ci hanno, dormono e tu che stai tanto meglio di loro, non dormi? - Tesi l'orecchio e, infatti, attraverso la parete sottile, udii il russare che faceva il Surunto, proprio di gusto; e questo russare in certo modo mi rassicurò e mi calmò e finalmente mi addormentai.

Il mattino dopo non pioveva più; e proprio sul momento che stavo andando via con il carrettino, ecco, si presenta il Surunto. Ritto sulla soglia, il cappelletto sugli occhi, disse, al solito, qualche cosa che non capii. Ma questa volta non volli perdere tempo e gli dissi: - Vuoi dirmi che sei disoccupato e che non ci hai soldi e che, insomma, non puoi pagarmi la mesata. Non è così? - Lui sgranò gli occhi e accennò di sì. Allora io, snervato, gli gridai: - Senti, te l'abbuono la mesata. E mi pagherai quando potrai. Per ora ci starai gratis nella baracca, gratis, hai capito? - Lui accennò ancora di sì, e poi borbottò qualche cosa, come per dire: - Ti ringrazio, Dio te ne renda merito. - E io allora, furibondo, gli gridai ancora: - E se volete cucinare, venite pure qui, vi do l'uso di cucina. Hai capito? - Lui accennò di sì per la terza volta e poi se ne andò. Mia moglie approvò il gesto, ma disse: -Visto che hai fatto trenta, potevi fare trentuno, e dargli anche il gabinetto. - Io risposi: - Glielo darò uno di questi giorni, ma non posso darglielo subito, voglio abituarmi all'idea. Sono bestie, non sanno neppure parlare, non lo vedi che non sanno parlare? - E lei: - Bisogna aver pazienza con loro, saranno bestie ma sono anche cristiani. - E io: - Sì, ma intanto il primo gradino, così, invece di salirlo, l'abbiamo sceso. E se continuiamo in questo modo, quando saliremo?


(Alberto Moravia, Non sanno parlare, in Nuovi racconti romani, Milano, Bompiani, 1974)

1 commento:

Unknown ha detto...

Grazie mille per questo regalo (spero che non me lo stia pubblicando a ripetizione, il messaggio, non me lo fa postare!).